Omaggio a Carlo Mariano Sartoris nel giorno del suo 53º compleanno. Disabili DOC pubblica stralci di letteratura tratta dalle sue opere.
Oggi, nel giorno del suo 53° compleanno pubblico uno stralcio di letteratura prodotta da Carlo Mariano Sartoris che, come scrive lui stesso, è protagonista vivente di due vite, non una.
A lui dedico questo spazio ad omaggio di una cortesia ricevuta, i suoi testi per DisabileDoc.it, e nel contempo mi rendo conto che è Carlo Mariano ad omaggiare questo portale con la sua letteratura.
Invito tutti a non perdersi la lettura dei testi che seguiranno alle mie parole. Una reale testimonianza che la disabilità non è una scelta, bensì un evento storico.
Mi incuriosiva il nome del sito di Carlo Mariano – www.HandyScap.it – gli chiesi quindi delle delucidazioni:
«Ti chiedo una curiosità: cosa significa HandyScap?
Io lo inteso come “fuga dal limite” (da non intendersi: rifiuto), ma ricerca di “non limiti” a beffa degli stessi. È giusto?»
Così mi rispose:
«hadyscap sta per … scappa dall’handicap … in pratica è così …»
A conferma che chi accetta la sua realtà può permettersi il lusso di fuggire dai limiti per avvicinarsi ad una vita che tenderà al massimo livello di qualità ottenibile …
Buona lettura!
Stralci di letteratura
Brani tratti da “Non ce la faccio più”, saggio sulle follie del mondo e autobiografico, 2004.
Anno 1986. Ero uno dei tanti, con le sue gioie e qualche patimento, con i suoi miti, i sogni, le illusioni e certi ideali, con molte speranze e qualche paura, con le sue certezze e le esitazioni. Non ero speciale, ma mi andavo bene così, ero sano, fabbricato decentemente, adoperando un discreto materiale. Ottimista, affrontavo il mondo che mi correva incontro con cuore baldanzoso, guardandolo diritto negli occhi, mostrandogli la faccia, ma qualche volta mi trovavo piegato.
Mi reputavo buono nei miei sentimenti, amavo il mondo, l’aria, la gente, ciononostante, ogni tanto, una voce ancestrale mi strillava da dentro un tumulto di disappunto secco e violento. Un rigetto indirizzato verso cose, persone o fatti che, apparentemente, di male non mi avevano fatto alcunché.
Era un malagevole moto di ribellione teso verso un nemico sfuggente e non meglio identificato: modi di dire, modi di fare, storie ascoltate in mezzo alla gente, notizie del telegiornale, atteggiamenti stimati normali, pensieri comuni, obbiettivi diffusi, alcune ambizioni del tutto abituali, rumoreggiamenti di massa, discorsi politici, impegni sociali.
Era come se il giusto fosse là, suddiviso e condiviso, equamente ripartito nel pensiero dei troppi, ed in quel consenso omologato, il giusto mi strideva, mi sfuggiva, vago e scomodo dogma universale. Principio assoluto che sentivo contraffatto ed abilmente camuffato.
Pur dubbioso, rimanevo nell’interno agli schemi predisposti, non mi emarginavo, fabbricavo, producevo, ma non ero sempre convinto di tutto quello che facevo.
Inspiegabilmente, di fronte a certe cose che tuttora reputo importanti, mi si affacciava un sospetto: come se la totalità, ripiena di un solido niente, fosse impastata in modo che il niente dovesse apparire tutto, sebbene vuoto e inconsistente.
Quando accadeva mi sentivo a disagio, come fossi stato figlio di un mondo a parte, un critico dissidente, un eretico disadattato, un manicheo, pignolo intellettualoide altezzoso, poco tollerante. Se mi dichiaravo diventavo petulante, per qualcuno molesto e troppo ingarbugliato. Allorché non ne parlavo assieme ad un amico pugliese che la sentiva come me, preferibilmente mi defilavo. Ora ne scrivo.
Quasi importunato da me stesso, analizzavo spesso quei latrati ambigui che sentivo guairmi da dentro nei momenti più soffocanti, insicuri e severi. Puntualmente, dopo averne snidato dei buoni motivi, partigiane ragioni ed elaborate giustificazioni, forse restando nel giusto, oppure slittando sul disonesto e sul troppo indulgente, trovavo un buon motivo per farlo: chiamavo a raccolta le contraddizioni, le placavo e rincasando codardo ad adagiarmi sulla latrina di tutto ciò che più mi tornava comodo, infine mi scagionavo.
Sono paralizzato. È dall’86. A quel tempo ero ancora giovane, rampante, consapevole d’essere un uomo sano, fortunato, gaio e quasi spensierato. Lavoravo sodo, molto onestamente, guardavo appresso ed anche più distante, mi divertivo, avevo un bel modo di fare, piacevo alla gente, vestivo quasi elegante, ero padre (ma non prete), ero sposato, forse e quasi, felicemente. Poi bang! Un incidente che potrebbe apparire folle o quasi stupido, ma a pensarci bene, non s’è mai visto un incidente intelligente.
Fine di tutto il mondo ordinario e quotidiano. L’assurdità, l’inizio della voragine, anfratto senza fondo, dentro al quale, dal principio non si vede niente.
Da quel periodo molto è accaduto. Il tempo che doveva passare è passato. Su di me orde di razziatori barbari e feroci divoratori di carcami, avidi avvoltoi che si spartiscono i resti della salma ancora cosciente, cattivi cervelli che non rischiano niente. Questo, ma non solo, anche tanta brava gente.
Rapace incidente
Avido schianto improvviso, livido sfregio, male violento. Dopo… più niente. Nel cervello, l’occhio rimane stupito dalla beffa imprevista del ruvido agguato, e guarda, si ritorna all’indietro, ma quello che resta è soltanto davanti, irrimediabilmente già scritto da un destino casuale, forse fortuito oppure prestabilito.
Rapace incidente, ladro di arti, di gesti, di sogni, di vita vissuta e non ancora finita, stroncata, spezzata e lasciata a giacere sdraiata sopra un grigio asfalto innocente, spettatore imparziale, testimone, avvilito, anch’egli stupito di quanto dolore si può concentrare in tanto piccolo spazio di terra e di tempo.
Canta lontana la voce tagliente della sirena. Mani raccolgono quanto resta di un corpo che era nato normale, rotto, spezzato, brutto regalo di un mattino di sole. Sole triste e senza colore, sole di un giorno di festa che si tramuta in tregenda e in tempesta.
Acre è l’odore dell’ospedale, cupo è il rintocco della campana. Bussa educata la morte e fa l’altalena. La vita prevale, maldestramente. Corpo disfatto, carcassa, relitto, rianimato da bravi dottori, di nuovo vivo, ma rotto.
Quindici mesi di letto, palestra, dottori, infermieri. Rumori a scricchiolo restringono la mente, colori sempre più neri. E poi la riscossa urla spazi ad altri suoni di nuovi e più alchimisti pensieri. Cambiano le prospettive stando seduti per sempre più in basso. Erotico, esaltante, seppur lento ricomporsi d’un minuzzolo di sesso. Anch’esso vivrà.
Quindici mesi in una clinica, col cuore lontano, io lontano italiano nel cuore di Francia, parificato compagno, uguale tra tanti, non architetto, non professore, ma essere umano da rabberciare. Uomo disperso tra i numerosi, troppi caduti sulla gloriosa, arrogante frontiera degli incidenti stradali. Si scopre d’essere in tanti, unici, irripetibili esseri viventi, danneggiati, puniti. Nell’infernale girone, dai drammi accomunati, ci si sente fratelli.
Quindici mesi di strazianti, spietati, abissali momenti di altalenanti vette e profondi baratri dei più profondi e veri sentimenti. Fanciulle, ragazzi, persone mature: occhi dispersi, sorrisi smarriti, arti bloccati, cervelli vaganti, parenti piangenti. Gente normale, pescata nel mazzo, uscita di casa e non più ritornata.
Tante storie da raccontare, muti pensieri tetri che è meglio tacere.
Poi la battaglia. Sguardi che sano parlarsi e capirsi, piccoli gesti impacciati, carezze, sorrisi, delicatezze, una birra, un caffè, giochi di società. Trucchi, invenzioni per spingersi avanti, tutti per uno, uno per tutti, uniti, attenti, fratelli, solidarietà. Bravi infermieri, persone di cuore, non capita spesso un duttile, semplice, esauriente, scherzoso dottore. E noi, i resti di corpi belli e piacenti, tornare a piacere e piacersi, aiutarsi l’un l’altro per superare i momenti più neri, cattivi, violenti. Quindici mesi nei calvinisti, protestanti ospedali.
Perdere tutto aiuta a trovare. Sono poche le cose per le quali è veramente gioia campare. Tutti prodotti di facile accesso, ben sistemati nella mente, nel corpo e nel cuore, nell’animo umano di tutta la gente. Peccato dover passare attraverso la cruna dell’ago e riuscirne diversi, ma in fondo migliori, per doverlo capire.
Intanto l’amore, l’affetto, da è onte trafitto, perfidamente. Nelle ore più nere e più bianche delle notti più scure, solo un nome ed un volto di donna che sguscia, che sfugge, sempre più lontano, sempre più distante. Vacilla la mente, frantume distrutto, guerriero sconfitto dalla sua amata gente. Lacrime amare d’un uomo che lotta, prigioniero libero di sguazzare dentro alla pozza dei pianti, inutili ululati, requiem della sua disfatta.
Poi occhi di bimbi, suoni di voci piccole, “papà, papà”, ombre inafferrabili, avidi strazi che non toccherai mai più. Sangue che sgorga a fiotti dalle piaghe dei desideri. Fiumi di gocce di pianto e preghiere, inutili inni scaraventati nel vento. Lirica che non servirà.
Grida zitte e assordanti che rotolano dentro, nel silenzio del girone dell’inferno terrestre. Parole, telefonate, cartoline, diapositive erranti di un mondo in cui eri e che ti ricorda che ora non ci sei più. Mesi e mesi d’ospedale. Una enciclopedia dell’esistenza.
Amore non è solo una parola, è comprendere minuscoli atomi di ogni bellezza e le interminabili profondità della sofferenza, è tendere una mano, sfiorare con una carezza sconosciuti occhi di un uomo sconosciuto, che in quel momento non ce la fa più. E capirlo, regalandogli una frase corta, una sola mossa d’un sopracciglio, un sorriso tirato. È quanto basta per guardare avanti, verso il nuovo attimo che presto arriverà.
Amore è una ragazza troppo giovane per già dover così soffrire. È sperduta, con gli occhi sepolti dal pianto, non ce la fa più. È ferma sulla carrozzina parcheggiata in un triangolo di sole. È là, dietro la finestra, vuole e non vuole farsi vedere. Avvicinarsi rotolando, carezzarle l’anima e poi dirle – sei bella – e stringerla in un goffo, tragicomico, scomodo abbraccio. E stare lì, carezzarla alla come si può, ma con amore, mormorare d’altro, impregnarsi del suo male fin quando le passa. È un breve attimo d’amore vero che durerà per sempre.
Amore sono mani, parole, sussurri, sguardi, silenzi, bicchieri, fiori, sigarette, e poi altre parole, ed un bacio, e poi altre carezze, ed un cane che corre, ed un viso sconosciuto di un uomo sconosciuto che ti comprende quando sei tu che non ce la fai più. E ti regala una parola, un sorso di vino, un gesto ragionato del piglio, che penetra e basta per andare avanti verso la speranza che forse arriverà.
Amori posticci, lesti e rubati, amori tra sani e handicappati, amori muti o confessati, amori poco abituali, sussurri di vite, profumi di campi fioriti tra le bianche stanze socchiuse di certi ospedali. Amori, voglie, audaci licenze, esperienze, parole dolci, gesti, stima, considerazione. Complicità terapeutiche, astuti trucchi che leniscono molti, troppi dolori.
Nel girone dell’inferno terrestre scoppia dentro il cranio l’esplosione. Lì comprendi la magia della vita, semplice miracolo, accurato disegno di raffinata e ultraterrena capacità di progettazione. Il rimanente si fa misero brano del resto delle cose. Si allontana, insignificante puntino al fondo della prospettiva che si chiama esistenza. Si fa, lontana la massa di faccende superflue, illusioni per dare sale, gusto, felicità al senso dell’autobiografia. Sfilza di sciocche menzogne che si rinnovano, allettanti e disagevoli come nascoste amanti.
Tutto questo ho imparato nella terapeutica intimità di quindici eterni mesi di ospedale. Ho imparato che bisognerebbe sempre usare parole buone, domani forse si dovranno rimangiare, ho imparato che un sorriso é un modo economico per migliorare l’aspetto. Ho imparato che non posso scegliere come mi sento, ma posso sempre tentare di migliorare la cosa, ma soprattutto ho imparato amore, ho succhiato amore, ho implorato amore, ho regalato amore, ho rubato amore, per prepararmi, per tornare ad amare e basta.
Poi, quel giorno, fine! Stop! Fine delle cure, più di tanto non si potrà fare. Mesi tra volti segnati da rughe tracciate da aratri di follia, volti buoni e cattivi, ma quelli buoni lo sono immensamente. Mesi finiti, il pacco torna al mittente.
Fine delle cure, più di tanto non si potrà fare. Addio! Grazie ospedale, ormai già molto lontano! Addio amici belli e devastati, svelti amori falsi scippati da una lacrima, strazi e tormenti, addio saggi compagni, che la fortuna vi assista! Casa, io torno, paralizzato, bellissimo frutto della terra riciclato dall’impasto ben miscelato d’ogni prodotto di tutti i sentimenti. Amore vero amerò e altro di meglio non c’è da fare su questa solida, liquida, pelosa, irrequieta pelle del mondo. Ho compreso, mi è costato, lo farò.
Questa solida, liquida, pelosa, irrequieta pelle del mondo ti accoglierà stolta e distratta, addestrata per darti il benvenuto con nuovi tagli, sfregi e ferite, per rivelarti che non è il dolore fisico quello che ti farà più male. Umiliato sarai, ancora non lo sai.
Tu diverso, un’altra volta vittima dell’ipocrita, isterica trappola della civiltà in funzione. La livellata landa dell’evoluta, opulenta, miseranda normalità, che ti teme, vile e immortale illusione di sfuggente autarchia. E nuovi giorni per le debolezze e le paure, lotta impari nella fabbrica di tracotanze, ecosistema delle perdute speranze. La normalità, luogo abitato da genti stanti bene, ma stranamente affascinate dal sangue d’altri, delle acute sofferenze, a patto che mediatiche; novellate fantasie, notizie distanti, televisive.
Mondo, magnifica casa polverosa e mal frequentata, covo momentaneo di vite a termine, ricettacolo di follia, gigante palcoscenico del grande show per chi torna stanco dopo una giornata di cabalistico lavoro. Teatro divertente: discoteca, sesso potenziato, gioco a premi, partita, oppure alta tensione rimpinzata di morte accalorata, spettacolare sofferenza e violenza meditata. Molto rilassante.
L’amore rotondo per la massa del mondo, e quello che strappava i capelli, è una canzone di fremiti, palpiti del petto, onde di mani tese. Essa melodia è vento, fiori, tempeste, nubi, voli d’uccelli, colori rossi negli orizzonti lontani e neve che gioca quando danza dal cielo.
Canzone di chi non la canta più nessuno, o quasi. Pochi poeti quasi derisi, gli ultimi cantautori d’un tempo che fu, artisti sofferenti, pittori incompresi. È cinema di serie B, pane raffermo per boriosi critici pieni d’arie rafferme, forse perché privi d’un buco del culo, esce tutto dalla bocca, tracotante sinfonia di opinione arrogante.
Da venti anni canto quasi da solo, inneggio ai miei fantasmi azzurri, densi nembi di libertà mia, schiava e serva ammanettata da una vetusta semente di primitiva semplicità latente. Godo da me soffrendone, e quieto artista di ciò che ho in più, e di quanto mi resta, vivendo senza gioia né acredine, attendo la buona morte democratica che a riscuotermi verrà, stessa paga per tutto il vivente. Che non ambisce, non ne vuole sapere.
Intanto, rumorosamente taccio, scrivo, osservo, medito e piango fontane di fiamme liquide, che ad ogni strazio umanamente concepito, mi annebbiano il cervello.
Ed è per tutto questo, per tutto questo e tutto quanto non sono riuscito a condensare fin qui, che dinanzi ai pianti delle madri che singhiozzano il nome ucciso dei loro figli, tra stragi e menzogne, ricette mediterranee e oltraggi al mondo e il suo pudore, io ammazzato dagli occhi grandi di bimbi dalla pelle marrone, già quasi morti, interessanti solo per mosche e reportage, io paralitico ancora in viaggio, non ce la faccio più.
Non ce la faccio più, indignato, rassegnato, innamorato delle vite altrui, respinto dal mio stesso eco alla vita ed all’amare. Non ce la faccio più, disgustato dal dissacrante e ciclopico potere del non sapere d’essere uomini, eppure esserlo e disintegrare la casa di tutti. Spettacolare pianeta, massa rotante in cui ancora vivo, io, essere umano, impronta digitale, numero di telefono, targa, o codice fiscale.
Amo soffermarmi in riva al lago e guardare una papera pulciosa. Naviga bella sulla pelle del pianeta e non la riga, scompare la sua scia. Ella esiste e vive pur senza lasciare traccia, non fa del male. Tanto è più grande l’entità di un dramma quanto la più piccola delle impreviste soddisfazioni che ne spezzano la perversione, diventa immensa.
Carlo Mariano Sartoris
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