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Ad un anno dalla morte di Luca Coscioni

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Disabile DOC ricorda Luca Coscioni a un anno dalla sua scomparsa.

Un anno fa moriva Luca Coscioni. Oggi pubblico la splendida intervista che Enrica Brocardo di Vanity Fair fece qualche tempo fa alla moglie Maria Antonietta. Il quadro che ne viene fuori è quello di una coppia innamorata che non esitò a diventare tale difronte ad un futuro già delineato. Io, scapolo, ho sempre avuto una particolare ammirazione per chi ha saputo costruirsi una vita di coppia a dispetto della patologia, dei dubbi e di tutti i freni gentilmente offerti dalle menti degli interessati e da quelle “di contorno”.
L’amore è anche il perseguire un obiettivo con tenacia e caparbietà come anche il coraggio di buttarsi, di mettersi in gioco, di far comprendere il desiderio che si ha nella voglia di condividere una vita: Luca conquisto così Maria Antonietta!

Noi, meteore in una notte di vita, troppo sovente pensiamo anziché sentire. La ragione, la razionalità, il conformismo ed alto ancora non portano a ciò che invece conduce una passione coraggiosa. Le parole di Maria Antonietta sono una sberla ai codardi ed un omaggio ai coraggiosi. Io sento che la guancia mi duole …

Più che un’intervista è il racconto di una bella storia d’amore!

La scelta di Luca (e la mia)

Luca Coscioni con la moglie Maria AntoniettaMaria Antonietta Coscioni ricorda il compagno scomparso un anno fa, e la sua lotta: contro la malattia, contro l’ipocrisia, in nome dei diritti e del “vero amore”.

«Se Luca avesse detto “provo a vivere attaccato a una macchina”, non sarebbe potuto tornare indietro. Almeno secondo una lettura restrittiva della legge italiana. In realtà questa possibilità gli era stata garantita da uno dei tanti medici che, a porte chiuse, negli ospedali o nelle case, “accompagnano” i malati alla morte».

Luca è Luca Coscioni, il presidente dei Radicali, morto un anno fa, il 20 febbraio 2006, per una crisi respiratoria. Aveva 39 anni, da più di dieci era malato di sclerosi laterale amiotrofica (una malattia che colpisce le cellule nervose del midollo spinale con l’effetto di atrofizzare progressivamente i muscoli) e aveva deciso di non voler continuare a respirare e a vivere grazie a una macchina.
A ricordare la sua scelta è la moglie Maria Antonietta Farina, 37 anni, che tre mesi fa è stata eletta presidente dei Radicali italiani, la stessa carica che Luca aveva rivestito fino alla morte.
Tra le grandi battaglie del partito, c’è il diritto all’eutanasia.
Tema rilanciato dal caso di Piergiorgio Welby, morto il 20 dicembre scorso e dalla recente “assoluzione” da parte dell’ordine dei medici di Mario Riccio, l’anestesista che gli ha “staccato la spina”.
La lotta per una scienza più libera è invece l’obiettivo dell’Associazione fondata dal marito (e a lui intitolata), che, a un anno dalla sua morte promuoverà la prima “Giornata per la libertà di ricerca”. Lei ne è la co-presidente, carica che condivideva con Welby.
Con Maria Antonietta parliamo a lungo su un treno che da Roma ci porta a Genova. Nella casa di Orvieto dove viveva con Luca, ormai trascorre poco tempo, e sta cercando un piccolo appartamento a Roma.
Finora ha abitato in un convitto di suore due piani sopra la sede del partito. «Avevamo una casa grande, tutta bianca. Gestire la malattia di Luca richiedeva spazi ampi, ora, invece, ho bisogno di luoghi ristretti: mi sento ancora un po’ persa. Mi era più facile distribuire le forze per occuparmi di lui e di me, piuttosto che pensare solo a me stessa».

Luca e Maria Antonietta si erano conosciuti nel 1994 all’Università di Viterbo: lui insegnava Politica economica, lei era una studentessa. L’anno dopo Coscioni diventa consigliere comunale di Orvieto, eletto in una lista civica collegata a un candidato sindaco di Forza Italia. Pochi mesi dopo il primo sintomo della malattia: si sta allenando per la maratona di New York, quando la gamba destra si blocca. La diagnosi arriva un anno dopo. Nel 1997 Luca Coscioni non riesce già più a guidare la macchina e comincia ad avere problemi nel parlare. Lascia l’incarico di consigliere e comincia a girare gli ospedali e le Università alla ricerca, se non di una cura, di qualcosa che possa aiutarlo a comunicare, a muoversi.

Poi, nel 1999, succedono due fatti: il vostro matrimonio e il ritorno di suo marito alla politica. C’è un nesso?
«Luca e io ci sposammo nel dicembre del 1999 e in quella occasione avevamo programmato due vacanze. La prima, a giugno, a Porto Santo Stefano, in Toscana, dove lui aveva trascorso tutte le estati fin da bambino. Aveva appena perso l’autonomia nel mangiare e doveva essere imboccato. Fu una bella vacanza, ma difficile. Poi, in agosto, andammo a Cogne, in Va d’Aosta. Tutte le mattine, appena sveglio, Luca sfogliava i giornali. Un giorno lesse che i radicali, per la prima volta in Italia, avevano intenzione di eleggere on line i membri del proprio Comitato. Decise di candidarsi e vinse».
Come le aveva proposto di sposarlo?
«Me lo chiese semplicemente».
Ha accettato subito?
«Sì. E ci mettemmo a cercare un posto dove vivere. A lui sarebbe piaciuto stare in campagna. Fui io a proporgli di restare a Orvieto, nell’appartamento sotto a quello dei suoi genitori. In caso di emergenza vivere in un posto isolato sarebbe stato troppo rischioso».
Rito civile o religioso?
«Religioso. Ci sposammo in una chiesetta di frati cappuccini».
Perché non convivere? Tanto più, considerate le vostre posizioni politiche.
«Il matrimonio è un valore che riconosco. Per me, in quel momento, era l’espressione più alta dell’impegno che dovevo sostenere».
Niente a che fare con motivi legali? Il fatto che, da moglie, avrebbe potuto salvaguardare meglio la sua volontà?
«Non ce n’era bisogno: la sclerosi laterale amiotrofica non intacca le funzioni intellettive. Ma di certo, da convivente, assisterlo sarebbe stato più complicato. Se all’interno di una coppia di fatto uno dei due è disabile, la discriminazione rispetto a chi è sposato è doppia. Anche per questo noi radicali stiamo lottando per avere i Pacs in Italia».
Com’era stare accanto a Luca?
«È stato un privilegio lottare insieme per la libertà di ricerca. Ma la malattia non ci ha dato mai tregua. Quando divenne più grave c’erano due persone ad aiutarci. Di notte ci alternavamo, perché chi stava con lui non poteva dormire. Luca non parlava, emetteva un suono molto debole. Teneva la mano appoggiata sul braccio di chi gli stava vicino, ma riusciva a fare solo una leggerissima pressione. Il livello di ossigeno nel sangue doveva essere continuamente monitorato. Se scendeva troppo, bisognava svegliarlo e farlo respirare, altrimenti rischiava di morire nel sonno».
La fine che molti si augurano. Non hai mai pensato che sarebbe stato meglio?
«Mai. Vegliavo Luca durante la notte per farlo vivere. Una presunzione, forse. Perché, come ho detto tante volte a Mina (la moglie di Welby, ndr), alla fine era come se Luca vivesse in un’altra dimensione. Fino all’ultimo gli dicevo: “Andiamo al mare, ti piace tanto”. Ma, a quel punto, lui si sentiva comunque dentro una gabbia».
Tra suo marito e Welby sembra esserci almeno una grossa differenza: uno ha combattuto per vivere, Welby per morire.
«Anche Welby amava la vita, ma si era malato a sedici anni e da nove viveva attaccato a una macchina per respirare».
Il destino che Luca non voleva e ha ottenuto di non avere.
«Non è che avesse deciso una volta per tutte, ci sono stati dubbi e ripensamenti. Ma alla fine è prevalso il no».
Lei che cosa avrebbe voluto?
«Chiedermi che cosa avrei fatto al posto suo non ha senso. Mi sono limitata a dirgli che lo avrei sostenuto in tutto. Inizialmente ho subito la decisione poi l’ho compresa. Ha deciso, giustamente, per sé. Se avesse scelto pensando a me avrebbe accettato la respirazione
assistita».
Però la battaglia che lei, come radicale, sta facendo contempla la possibilità dell’eutanasia anche se il malato non è più in condizioni di esprimere il suo desiderio di morire.
«Il punto è garantire libertà di scelta a chi ha espresso chiaramente la propria volontà. Come Luca e Welby. E come Eluana (Englaro, la donna di Lecco in coma vegetativo da circa 15 anni, per la quale il padre chiede di “staccare la spina”, ndr). Un documento scritto non esiste, ma lei ne aveva parlato in modo esplicito prima che l’incidente la mettesse in una condizione tale da non poter più comunicare».
Per questo voi radicali ritenete che il testamento biologico sia necessario?
Sì. Ma la legge deve essere fatta bene: se idratazione e alimentazione artificiali non sono contemplate tra le terapie che una persona può rifiutare, non serve a niente».
Si è mai chiesta come sarebbe stata la sua vita se suo marito non si fosse ammalato?
«Io mi sento privilegiata. La mia esistenza è stata straordinaria».
In questo caso, normale non sarebbe stato meglio?
«La nostra è stata un’altra normalità. In 11 anni abbiamo vissuto quello che altri vivono in 50, perché ogni mese il progredire della malattia cambiava tutto e ti dovevi reinventare un nuovo modo di andare avanti. L’unica cosa che non ho potuto avere è stata la maternità».
Ne avevate parlato?
«All’inizio si era discusso della possibilità di fare un figlio. Ma, con l’aggravarsi delle sue condizioni di salute, tutte le mie attenzioni erano rivolte alla vita di Luca, e lui stesso non voleva avere un bambino che non sarebbe stato in grado di proteggere. Neppure di tenere in braccio».
Le è mai pesato vivere in questo modo?
«No, non mi è mai pesato. Mentre è stato difficile stare accanto a persone che non hanno compreso che occorreva un grandissimo lavoro per rinnovare una scelta di vita come quella. Con in più il carico di paura, debolezza e incertezza che la malattia porta con sé. E ho sofferto nel sentir dire: “Io Luca me lo voglio ricordare da sano, fino a 28 anni”. Come se l’impegno politico, tutto quello che ha fatto dopo, fosse annullato dalla sua condizione».
Lei ha detto di aver sempre curato il suo aspetto e non sembrare la moglie infelice di un marito malato.
«E non so se sia stato un caso che anche Luca fosse rimasto bello fino alla fine. Ci sono persone che la sclerosi laterale amiotrofica trasforma completamente. A lui non è successo».
Suo marito le diceva mai che era bella?
«Sì, anche perché gli chiedevo continuamente conferme. Avevo un grande bisogno di essere rassicurata. Luca era una persona esigente: con lui dovevi sempre essere perfetta in tutto. Negli ultimi mesi, di fronte ai mie dubbi, alla paura di non essere adeguata ai suoi bisogni, mi disse che con me aveva capito che cos’era il vero amore: “Tu hai messo me al primo posto”».
In cambio che cosa riceveva?
«Io ho preso anche da quello che lui non mi ha dato».
Più chiaramente?
«Il solo fatto che lui esistesse, che io fossi la persona di cui aveva più fiducia.»
E prima della malattia?
«La sua ostinazione nel volermi mi colpì. Mi corteggiò per oltre sette mesi».
Avete mai parlato del “dopo”?
«No. È orribile solo l’idea che una persona che sta per morire ti dia il “permesso” di rifarti una vita».

Pubblicato il 9 Febbraio, 2007

Enrica Brocardo di Vanity Fair

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About Author

Sono nato il 25 febbraio del 1963 ed a 23 anni ho coronato il mio primo sogno d'impresa: un'attività commerciale che durò per circa vent'anni. Dopo un periodo sabbatico fondai nel 2009 Ideas & Business S.r.l. che iniziò la sua opera come incubator di progetti. Nel 2013 pensai di concretizzare un sogno editoriale: realizzare un network di testate online. ImprendiNews.com è la prima testata attiva dal 1º maggio 2014. Altre già pensate e realizzate prenderanno vita pubblica nei prossimi mesi. Per ora scrivo per passione come per passione ho sempre lavorato per giungere alla meta.

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  • 2 commenti

    1. Serve commentare: ho la fortuna di avere una moglie che mi ama, ed amo, tanto da non poterne fare a meno; penso che l’amore che si prova in situazioni di bisogno, sia il più grande perché, se c’è, non può morire fino a che non si muore. E chi non lo prova, molla, subito, ed è giusto così: meglio soli che essere sopportati.
      Massimo

    2. Ciao Massimo!

      Serve commentare: ho la fortuna di avere una moglie che mi ama, ed amo, tanto da non poterne fare a meno; penso che l’amore che si prova in situazioni di bisogno, sia il più grande perché, se c’è, non può morire fino a che non si muore. E chi non lo prova, molla, subito, ed è giusto così: meglio soli che essere sopportati.

      Parole sante!

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